Morte, distruzione, malattie, orrore
la guerra è fatta di questo:
ecco perché bisogna evitarla.
Ma voi l’avete resa pulita e ordinata,
così pulita e ordinata da non avere più motivo per eliminarla.
 James T. Kirk – Capitano della nave stellare Enterprise
Star Trek by Gene Roddenberry

Oggi nessuno contesta il fatto che prevenire sia meglio che curare,
e più economico,che reagire alle crisi dopo che queste si sono verificate.
E tuttavia le nostre prassi e culture politiche e organizzative
rimangono ancora largamente orientate alla reazione più che alla prevenzione.
Per citare un antico proverbio,
è difficile trovare i soldi per le medicine, ma non per la bara.
Kofi Annan – Segretario Generale delle Nazioni Unite 

 

 

Premessa

Nella primavera del 1995 ho visto per la prima volta una mina antiuomo, ma soprattutto ho visto per la prima volta una fotografia del corpo di un bambino falciato dallo scoppio di una Valmara 69.

Pensavo che i bambini fossero vittime marginali dei conflitti bellici, pensavo che le guerre assomigliassero alle fotografie viste sui libri di storia, ma mi sbagliavo. Non c’è niente di accidentale nel corpo mutilato di un bambino, non si tratta di un incidente di percorso, tutto è minuziosamente studiato a tavolino: creare intere popolazioni di invalidi; strappare loro le gambe, le braccia, gli occhi e la speranza.

Ho cercato molte volte di immaginare il lavoro di un progettista di mine antiuomo; lo vedo concentrato, assorto davanti al monitor di un computer o davanti a dei giganteschi fogli bianchi pieni di schizzi e dati tecnici. Assomiglia a uno dei maghi delle corse automobilistiche che si piegano sul motore, toccano un ingranaggio quasi invisibile e la macchina comincia a correre alla perfezione. Però il progettista di mine non sta cercando di vincere una competizione sportiva, ma sta cercando di massimizzare gli effetti di un ordigno destinato a dilaniare il corpo di un bambino. È intento a ponderare tutti i parametri che ha davanti a sé; deve trovare il giusto quantitativo di esplosivo, abbinarlo a una perfetta quantità di frammenti metallici dalla forma irregolare, scegliere il colore dell’involucro e decidere che forma dare all’oggetto. L’operazione è abbastanza complessa perché non può ignorare il tipo di terreno su cui dovrà essere posata la mina, deve prevedere le reazioni che l’arma susciterà nel cervello del bambino, deve stabilire se sia più opportuno fargli saltare una gamba o renderlo cieco per la vita. Ma non può lavorare senza sosta, l’orario d’ufficio è finito, andrà a casa dove suo figlio gli correrà incontro e lo abbraccerà con gli occhi che brillano. Un mestiere come un altro.

Questa è la guerra. Non c’è onore, non c’è coraggio, non c’è pietà. La guerra sta diventando sempre più pratica e sempre più sincera. Ha abbandonato la retorica del duello tra cavalieri impavidi, ha capito che se esiste un nemico non ha senso affrontarlo prendendolo dal suo lato più forte e così va a colpirlo dove non trova opposizione, massacrando donne, anziani e bambini. Soprattutto i bambini, coloro che rappresentano il futuro di un nemico da cancellare. I bambini devono essere colpiti, ma senza ucciderli: il compito della mina è di renderli per sempre un peso per la società.

L’uomo è riuscito a eliminare l’odore della guerra e la vista del sangue; è riuscito a togliersi dalle orecchie le urla di chi soffre; non è più costretto a penetrare la carne dell’avversario con un coltello; gli basta un mortaio, un lanciarazzi o un aereo che passa veloce sull’obbiettivo. Lo sviluppo tecnologico consente di continuare il massacro senza il fardello di subirne gli orrori e così l’uomo può usare un’arma senza rendersi conto delle sue conseguenze. Niente di meglio di una mina: il combattente avanza e, come un contadino, procede alla semina; poi un giorno qualcuno passerà di lì e la mina farà il suo dovere. Chi ne è responsabile? Impossibile da ricordare.

Ho un giovane amico di quattordici anni, è jugoslavo. Ma lui si arrabbia a morte se lo chiamo jugoslavo; lui è kosovaro, parla albanese e canta i cori di morte dell’UCK.

Nella sua testa la guerra ha già fatto più danni di quelli prodotti da una mina sul suo corpo. Fino a dodici anni era un bel bambino, un po’ gracile, ma carico di energie e pronto a dispensare dispetti a tutti gli amici. Poi un giorno ha fatto un gesto di una banalità sconcertante: ha trovato un oggetto misterioso sulla riva di un lago e ha cercato di smontarlo. Era una mina antiuomo.

Oggi Bedri ha quattordici anni ed è sempre un gran bel bambino. Ha perso una mano, quattro dita dell’altra, la vista a un occhio e il secondo riesce a vedere solo attraverso una lente spessa mezzo centimetro. È pieno di escoriazioni su tutto il corpo, ora sembra un vero duro da telefilm americano.

Nell’estate del 1999 è arrivato a Pisa con un volo speciale che trasportava feriti della guerra in Jugoslavia, l’hanno portato in ospedale con le bende alle mani e sugli occhi. Tutto attorno aveva gente che parlava una lingua strana e ha cominciato a sviluppare l’istinto e il tatto per capire di chi poteva fidarsi. È rimasto immobile su un letto di ospedale per settimane, ogni tanto una voce che non conosceva lo portava al bagno e gli allungava del cibo, ma Bedri era furbo annusava tutto prima di infilarselo in bocca.

Dopo l’ultimo passaggio dalla sala operatoria gli hanno tolto le bende agli occhi, ha cominciato a percepire nuovamente la realtà circostante e si è messo a correre, senza fermarsi, correva e basta. Non riusciva a esaurire la tensione che aveva accumulato per quella operazione. Quando si è fermato ha cominciato a guardare la gente intorno con delle strane smorfie, piegando la testa per aggiustare la messa a fuoco e ogni volta che riconosceva qualcuno, che fino a quel momento era stato solo una sensazione epidermica, si rimetteva a correre.

Bedri è tornato a casa e sfodera il suo sorriso raccontando a tutti dell’eroica lotta con il cane che gli ha mangiato la mano.

È incredibile, più sono piccoli e più velocemente ritrovano il sorriso.

Nel frattempo il progettista è tornato al tavolo, il mercato vuole le sue novità.

_________________________________________________

La tesi di laurea mi ha fatto provare delle sensazioni strane e mi ha obbligato a fare il punto della situazione. È un lavoro molto particolare, non è un punto di partenza, né un punto di arrivo, ma un passaggio che mi ha costretto a guardarmi indietro e a rivisitare tutti i volti che in qualche modo hanno partecipato al lungo percorso di studi che si concluderà con queste pagine.

Vorrei ricordare tre persone.

Nella vita ho avuto molti insegnanti e molti professori, ma solo tre Maestri :

Luciano Demagistris – Luigi Di Palo – Mauro Santerini.

_________________________________________________

Vorrei inoltre fare una “non dedica”:

non dedico queste pagine a tutti i sindacalisti di sinistra che hanno difeso, difendono e difenderanno strenuamente il posto di lavoro degli operai impiegati nelle fabbriche produttrici di mine antiuomo