CONCLUSIONI


Questo lavoro di ricerca è partito dal presupposto che le mine antiuomo debbano essere totalmente eliminate e ha cercato di indagare tutti i settori di intervento che possono portare al risultato sperato.

L’intera ricerca necessita però anche di un parametro di riferimento per individuare un terreno comune di discussione.

È necessario concordare sulla comunità di riferimento verso cui rivolgere lo studio dei problemi. La parola “mondo” non riveste lo stesso significato per tutti, ma se non si trova un’intesa su quel significato ogni discorso diventa inutile.

Per molte persone il mondo di riferimento è costituito dall’intero pianeta e una tragedia è una tragedia sia che si consumi nel giardino di casa, sia che si verifichi a migliaia di chilometri di distanza. Ma per altri, il mondo di riferimento può essere più ristretto, diventando l’occidente, la nazione, la propria città o le quattro mura entro cui vive. Stringendo progressivamente i confini del mondo è possibile scoprire che le mine antiuomo in realtà non esistono, il che accade con una certa frequenza. Un problema diventa tale solo quando entra nei confini del mondo di riferimento, non prima.

Chi scrive vive in un Paese che ha una percezione del mondo che potremmo benevolmente definire angusta.  I confini si limitano spesso a comprendere il comune di residenza, la struttura lavorativa in cui si è inseriti o il solo ambito familiare. Il problema non riguarda casi isolati, ma arriva ai vertici della società. Ad esempio: il giorno 22 settembre 2000, uno dei più importanti telegiornali ha dimostrato tutta la sua sensibilità predisponendo la propria gerarchia delle informazioni in modo da porre le prove libere del granpremio di Indianapolis come notizia preliminare a un’alluvione che ha colpito l’India causando migliaia di morti e 10 milioni di senzatetto. 10 milioni significa la popolazione di Lombardia e Liguria messe insieme, significa due volte la popolazione della Danimarca, ma la notizia è passata velocemente per non disturbare l’appetito dei telespettatori ed è finita lì, non ha avuto alcun seguito, la stampa non si preoccupa del destino di quei 10 milioni di persone.

Se il punto di vista è questo allora possiamo considerare di vivere in un mondo che tutto sommato non presenta grosse difficoltà.

Le mine antiuomo, e le guerre, hanno però la capacità di riunire le preoccupazioni di soggetti che partono da parametri di riferimento lontanissimi. Le mine, infatti, contribuiscono a rendere impossibile la vita in molte aree geografiche del pianeta e costringono intere popolazioni a spostarsi verso zone abitabili, andando a ingrossare le fila dei flussi migratori che giungono sul territorio di altri Stati, con il rischio di invadere il mondo di riferimento di qualcuno.

A questo punto rimuovere le cause delle guerre diventa un interesse diffuso e un buon investimento anche per chi non è minimamente interessato al destino di popolazioni lontane.

Anche gli interessi economici di chi prospera sulla povertà altrui in un regime di risorse limitate non sfuggono a queste considerazioni. I precari meccanismi di un mondo che si regge su una minoranza che beneficia della parte più consistente delle risorse, rispetto a una maggioranza cui è dato accesso a una porzione ridotta di ricchezza trovano un equilibrio fino a quando il divario non diventa eccessivo. È possibile mantenere questo equilibrio solo se le condizioni di vita della maggioranza non si degradano fino al punto da mettere a rischio la propria sopravvivenza e fino al punto da spingerla a domandarsi cosa ha generato quello stato di cose, con la conseguente curiosità di dare un’occhiata alle condizioni di vita degli altri.

In questo senso innalzare il livello economico dei Paesi poveri, prevenire i conflitti che distruggono l’intero impianto sociale e bonificare i terreni minati può rappresentare un buon investimento anche per chi deve tutelare il proprio giro d’affari.

Chi scrive prova un certo disgusto per le parole sopra riportate e probabilmente si tratta dello stesso disgusto che leggendole proveranno coloro che hanno un’alta considerazione della vita umana.

 


 

La lotta per l’eliminazione delle mine è partita dal rifiuto della logica che le ha create. Una logica che coinvolge i civili e soprattutto i bambini in situazioni belliche di cui non hanno nessuna responsabilità. L’uso delle mine ha già segnato l’esistenza di persone che devono ancora nascere e non si può fare altro che mettere in campo tutte le contromisure necessarie per limitarne gli effetti ed evitarne la proliferazione.

In ambito giuridico questo significa aderire al Trattato di Ottawa, predisporre una severa legislazione nazionale che scoraggi i trasgressori prima ancora di doverli punire e sostenere tali provvedimenti con un impegno serio e immediato.

In termini extra-giuridici le misure di reazione all’emergenza devono essere potenziate e privilegiate rispetto a interventi di altra natura. È necessario uno sforzo economico concentrato nel tempo presente per aumentare l’intervallo del metronomo che batte un rintocco ogni venti minuti fino a farlo tacere definitivamente.

In termini di prevenzione è necessario cambiare radicalmente l’approccio alla risoluzione dei problemi, lavorando per rimuovere le inaccettabili disparità sociali che regolano la nostra vita, permettere un accesso generalizzato alle informazioni e alle conoscenze e recuperare una dimensione culturale capace di porre la vita umana davanti alle “leggi del dollaro”.

Tutto questo lavoro comporta il coinvolgimento dell’intera società e non è terreno riservato agli attori della politica, delle relazioni internazionali o della finanza. Un approccio interdisciplinare e mondiale è prerequisito necessario.

Eliminare le mine antiuomo e la logica criminale che le sostiene significa necessariamente mettere in discussione tutta la guerra come oggi viene concepita, con l’annientamento fisico dell’avversario: uomo, donna o bambino che sia.

La Comunità Internazionale si propone dal lontano 1929 di abolire la guerra nell’interazione tra gli Stati, ma di fatto le intenzioni sono rimaste tali, mentre la guerra continua a figurare nel menu delle scelte dell’agire umano. Fintanto che non verrà cassata da quel menu, il ricorso alla guerra per la soluzione delle controversie resterà uno dei piatti più gettonati di chi pensa di avere i muscoli più potenti dell’avversario, perché massacrarsi di botte è molto più comodo che instaurare un dialogo seduti a un tavolo, in particolar modo quando chi opta per lo scontro poi manda qualcun altro a picchiarsi al suo posto.

La Carta delle Nazioni Unite vieta la soluzione delle controversie attraverso l’uso della forza, ora si tratta di trasformare la “barzelletta del XX secolo” in una realtà del XXI. La Comunità Internazionale potrebbe aiutare questo processo evitando di coniare sempre nuovi termini per giustificare la propria azione, termini che non stanno in piedi nemmeno con l’ausilio della fantasia, ma che contribuiscono a confondere la gente che li ascolta, come quello di “guerra umanitaria”.

 


 

Il lavoro non manca. Sia i provvedimenti d’emergenza, che quelli di lungo periodo necessitano un intervento immediato.

Le mine antiuomo possono sparire in tempo per salvare la quinta generazione che non le ha ancora conosciute[1].

L’impegno proseguirà in silenzio, senza riflettori, successo e ricchezza, ma ne vale la pena.

L’ultima frase di questo lavoro è in realtà l’ultima frase pronunciata dal delegato neozelandese accreditato alla Conferenza di Ginevra; chi scrive non fa altro che sottoscriverla :

Mr President, the task before us is no longer one of glamour and heroism, but one of solid and effective hard work. We are faced with a handful of nuts-and-bolts which we must put in place one-by-one. This task may not make headlines, but, effectively dealt with, it will save lives. My delegation is ready to work with you to this end, Mr president.

  I thank you”.                    



 

[1] Cfr. paragrafo 6.2.1.