CAPITOLO VIII
MISURE GENERALE DI BREVE E LUNGO PERIODO

 

8 . 1 – Misure generali di facile attuazione

Le misure previste nel Trattato di Ottawa non sono le sole che possono trovare immediata attuazione nella lotta contro le mine. L’esperienza delle ONG e l’iniziativa dei singoli possono servire per escogitare interventi semplici per cui non è nemmeno necessario l’appoggio delle istituzioni.

I settori dell’informazione, della pubblica istruzione e dell’economia possono essere veicolo di sostegno al lavoro iniziato dagli attori di Ottawa.

Il questionario proposto da questo lavoro di ricerca non ha contribuito molto all’individuazione di misure extra-giuridiche, ma alcune proposte esistono o si possono inventare.

8 . 1 . 1 – Scuola

La popolazione in età scolastica è quella che meglio recepisce le iniziative di carattere umanitario e che si mostra maggiormente interessata a conoscere cosa accade ai propri coetanei in luoghi lontani della terra.

I bambini e gli adolescenti dimostrano una curiosità e un coraggio nell’esprimere le proprie idee che spesso non si riscontrano nella popolazione in età adulta[1]; è infatti molto più probabile che il relatore si trovi in difficoltà per una domanda di un bambino che per quella di un adulto. Più volte, nel corso di incontri sulle mine proposti alle scolaresche, è stato possibile notare un’attenzione particolare da parte dei giovani interlocutori, che sono veicolo di informazione anche verso i propri familiari. I ragazzi che rimangono colpiti dai discorsi sulle vittime, sulle conseguenze delle mine o sui modi di fare la guerra sono spesso portati a condividere le loro sensazioni con gli amici e i genitori.

Il compito è abbastanza delicato, deve essere supportato da un linguaggio adeguato e da un insegnante preparato dal punto di vista strettamente educativo; in nessun caso le informazioni devono essere fornite con l’intento di shockare gli alunni, altrimenti l’unico risultato sarà quello di aggiungere violenza a violenza.

Gli interventi nelle scuole sono prevalentemente proposti dalle organizzazioni di volontariato e spesso sottoposti a lunghe trafile burocratiche. È dovere di ogni buon preside controllare le credenziali di chi andrà a parlare ai suoi studenti, ma in molti casi esiste una chiusura a priori verso tutto ciò che esula dai programmi ministeriali. Serve una maggiore collaborazione tra le istituzioni pubbliche e il mondo che le circonda; in qualche caso si registra l’interessamento dei Ministeri della Pubblica Istruzione per elaborare pacchetti didattici capaci di avvicinare i ragazzi alla realtà della guerra e sarebbe importante aumentare il numero di queste iniziative.

Come si diceva al paragrafo 7.2.5, le iniziative in ambito sociale non sono patrimonio esclusivo del settore del volontariato, ma devono riguardare anche le istituzioni pubbliche. Un esperimento interessante è stato attivato in Canada dopo l’entrata in vigore del Trattato di Ottawa.

Il governo canadese ha predisposto un programma chiamato “Le Jeunes ambassadeurs pour l’action contre les mines”. Il programma si è occupato di formare alcuni giovani al fine di farli viaggiare per il territorio nazionale a incontrare gli alunni delle scuole. Il programma prevede incontri classici in un’aula scolastica, giochi di ruolo e  giochi di simulazione[2].

8 . 1 . 2 – Università

Anche il mondo universitario potrebbe dare un importante contribuito all’eliminazione delle mine antiuomo.

Medicina, Giurisprudenza, Ingegneria, Informatica, Scienze Politiche, Economia e Commercio sono tutte discipline che possono dar vita a studi e ricerche di un certo interesse per gli attori di Ottawa.

Negli ultimi anni la notorietà raggiunta dalle mine ha dato lo spunto a lavori universitari[3], ma c’è bisogno di un impegno ulteriore e di una maggiore facilità di accesso a questo tipo di documentazione. Molti lavori di ricerca contengono elementi importanti che dovrebbero essere a disposizione di chi intende svilupparli ulteriormente, senza incappare in inutili ripetizioni. Le ricerche potrebbero essere catalogate e inserite in un apposito sito internet.

L’università dovrebbe inoltre rappresentare un luogo capace di preparare i suoi studenti per il futuro, fornendo loro gli strumenti per analizzare la realtà. I corsi universitari devono stimolare lo spirito critico dello studente e permettergli di rendersi conto che la teoria dei libri deve confrontarsi con la pratica che ne consegue. Il lavoro di ricerca dovrebbe essere stimolato e non bloccato da programmi d’esame rigidi.

8 . 1 . 3 – Trasparenza nel settore commerciale

Il sesto quesito del questionario ha portato a due risposte che possono aiutare a sviluppare il discorso sulla trasparenza nel settore commerciale[4].

Il Ministero degli Esteri del Burundi parla di “boicottaggio” verso i produttori di mine e quello olandese considera importante pubblicizzare i loro nomi.

Analizzando la posizione dei vari Paesi nei confronti delle mine non sembra opportuno, oggi, pensare a misure restrittive in campo economico che si rivolgano al territorio di uno Stato.

Tutti i governi del mondo si dichiarano concettualmente contrari alle mine: nel caso degli attori di Ottawa questa opposizione è stata tradotta in un testo giuridico per la loro messa al bando, mentre gli altri si dichiarano prossimi alla loro abolizione oppure considerano le mine come un male necessario, scaricando la colpa su vicini bellicosi e gruppi di ribelli (in qualche caso si assiste a un ambiguo silenzio). Al mondo non sembrano esistere sostenitori delle mine e da più parti è stata indicata la data precisa della futura adesione al trattato.

I dati di ICBL parlano inoltre di un commercio internazionale ridotto al minimo e di decine di Paesi estranei al bando che quanto meno hanno adottato una moratoria sulle esportazioni.

Per queste ragioni, provvedimenti di drastica rottura delle relazioni politiche o commerciali non sembrano adeguati alla situazione, né realisticamente percorribili. Il processo iniziato a Ottawa sta proseguendo con regolarità e il mantenimento di un rapporto collaborativo è sicuramente preferibile. Sarà però importante controllare che gli impegni assunti vengano rispettati, lavorando per una riduzione dei tempi indicati. Il solo provvedimento che può essere adottato riguarda le armi in generale, interrompendone il commercio verso quei Paesi che fanno uso delle mine e dimostrano scarsa attenzione verso i Diritti Umani (anche in questo caso significherebbe chiedere alla classe politica di schierarsi contro una delle più potenti lobby del commercio internazionale).

Tornando alle parole di Olanda e Burundi, è però importante lavorare da subito per dare trasparenza al settore del commercio e permettere ai consumatori di decidere coscientemente verso quali prodotti rivolgere le proprie preferenze, segnalando quali attività commerciali si celano dietro un marchio. La parola “boicottaggio” è forse fin troppo forte, la sola possibilità di mettere il singolo nelle condizioni di fare le proprie scelte in maniera consapevole costituirebbe un enorme passo in avanti.

I produttori di armi non amano molto la pubblicità e il commercio si svolge spesso attraverso strane triangolazioni che rendono difficoltoso collegare la fonte di partenza con la sua destinazione finale. I mezzi di informazione non aiutano a fare chiarezza e sono spesso collegati, se non posseduti, da chi gestisce attività commerciali che comprendono il settore degli armamenti. Ma i consumatori hanno diritto di sapere cosa stanno mangiando, così come hanno il diritto di sapere a chi stanno dando i propri risparmi.

Nel 1990 comperare una FIAT significava mandare i propri soldi nelle stesse casse che ospitavano il denaro proveniente dal commercio di mine antiuomo.

Oggi comprare un telefono cellulare Ericsson, Motorola o Siemens significa recapitare il denaro nelle casse di chi commercia in armamenti[5].

L’accesso a queste informazioni non è assolutamente vietato, ma “semplicemente difficoltoso”, la stampa ci racconta tutto delle vicende amorose dei VIP, ma non è molto propensa a parlare delle loro relazioni con un mercato delle armi assolutamente lecito.

Questa riflessione non intende mettere i produttori di armi in cima alla “lista dei cattivi”, né parteggiare per politiche di criminalizzazione contrarie a qualunque processo di pace. Si vogliono solo appoggiare le parole scritte dal ministero dell’Aia e sottolineare che la responsabilità è prima individuale e poi collettiva, non viceversa.

Gli Stati che non aderiscono al Trattato di Ottawa sono corresponsabili della carneficina causata dalle mine antiuomo, ma è in prima battuta il comportamento quotidiano del singolo a determinare la risultante finale.

Negli anni passati i risparmiatori italiani destinavano il proprio denaro in gran parte verso i titoli di stato, mentre oggi sembrano preferire investimenti nel settore privato. In questo le banche dovrebbero assumersi il compito di informare i clienti della destinazione ultima dei propri soldi, per sapere chi si trova dietro il nome di un fondo azionario e consentire al cliente di affidare i risparmi secondo il proprio criterio di preferenza.

Mentre tutte le industrie statali del settore difesa vengono dirottate verso la privatizzazione, come è possibile controllare le credenziali di chi vende armi ?  

Ad esempio, quale ruolo ha svolto Finmeccanica, all’interno dell’IRI, in rapporto alla produzione di mine ?

8 . 2 – Misure generali a lungo termine

Le parole “lungo termine”, che danno il titolo alla seconda parte del capitolo VIII, non vogliono segnalare proposte d’azione da attivarsi in un secondo tempo, sono anzi le proposte cui si riconosce la maggiore importanza tra tutte quelle avanzate in questo lavoro di ricerca. Le parole “lungo termine” servono solo a riconoscere che è necessario un lungo e paziente impegno per vederne all’opera i risultati concreti.

L’ultima parte del lavoro intende affrontare alcuni aspetti in ambito culturale, considerato come il settore determinante dell’interagire umano.

La campagna per l’abolizione delle mine antiuomo, come ogni altro obbiettivo dell’azione dell’uomo, ha bisogno di capire le ragioni di tutti gli individui che ne sono coinvolti per raggiungere i risultati sperati. È difficile eliminare gli effetti di una tragedia senza averne prima comprese le cause e il retroterra culturale che le ha partorite.

8 . 2 . 1 – Terreno d’incontro

Un processo di pace come quello che abbiamo analizzato comporta l’interazione di soggetti molti diversi.

Le differenze nascono dalla provenienza geografica, culturale, religiosa, ideologica e professionale. Le persone sedute a uno stesso tavolo hanno bisogno di un linguaggio comune con cui confrontarsi.

Nelle assisi internazionali è facile creare momenti di incontro tra tutti questi soggetti, ma in quelle sedi si devono prendere decisioni che faranno sentire i loro effetti sulla pelle dell’intera popolazione mondiale ed è oltremodo rischioso arrivare a questi appuntamenti come primo momento di contatto. Gli attori della politica devono creare le condizioni di interazione tra i soggetti in un tempo decisamente anteriore.

Il Processo di Ottawa si è basato sull’interazione tra due mondi che in precedenza non disponevano di molti punti di contatto, ma proprio da questo connubio è nato un impegno generalizzato contro le mine. Se i rappresentanti governativi fossero rimasti nei loro uffici e quelli delle ONG avessero fatto altrettanto non si registrerebbero oggi i risultati esposti ai capitoli precedenti. Questo tipo di collaborazione deve continuare nel rispetto e nella gelosa custodia delle rispettive identità.

A questi due mondi se ne è presto aggiunto un terzo, quello militare, necessario in un processo di disarmo. Società civile e Forze Armate si trovano  su posizioni ancora più distanti di quelle che scontano ONG e classe politica. Le ragioni e le colpe di questa lontananza sono riscontrabili in entrambi i soggetti, ma devono essere indagate per consentire un dialogo fruttuoso.

È quasi impossibile per i comuni cittadini venire a conoscenza delle faccende militari, non solo di quelle relative alla sicurezza nazionale, ma anche delle semplici abitudini di vita all’interno di una caserma. Il mondo militare vive appartato con proprie leggi e propri tribunali, diviso dalla società civile da un filo spinato che solo in apparenza ha lo spessore di pochi millimetri, ma che in realtà costituisce un muro difficile da valicare.

La società civile, da parte sua, non sembra impegnarsi granché per ridurre le distanze. La classe politica lavora obbligatoriamente a contatto con gli ufficiali delle Forze Armate, ma non risponde ai cittadini delle decisioni nel settore della difesa. Altre istituzioni fanno altrettanto, impedendo di abbattere o di limare quel muro fatto spesso di segreti impronunciabili, ma che nasconde anche la diffidenza di persone che non si conoscono.

Molti membri delle ONG hanno difficoltà a capire come si possa scegliere di passare una vita inquadrati in un ordine gerarchico, ma al contempo sfugge a parecchi militari come sia possibile non considerare il concetto di “patria” in cima alla lista delle preoccupazioni di ogni individuo. Questi sono chiaramente due esempi estremi, ma aiutano a capire la sostanza del discorso. È possibile ignorare queste differenze e proseguire su strade parallele, ma serve a poco in una società che è formata da entrambe le realtà.

Chi scrive fa parte di un’ONG, considera i confini nazionali come una semplice suddivisione di ordine amministrativo e non ha mai capito per quale motivo dovrebbe parteggiare per ogni maglia azzurra impegnata in una qualunque disciplina sportiva, ma non intende negare la necessità di un apparato coercitivo e di difesa nell’attuale organizzazione della società. Partendo da questo presupposto non è possibile scaricare le incomprensioni sulla controparte ed è necessario studiare il modo di creare un terreno d’incontro.

L’Italia vive una fase di transizione dalla coscrizione obbligatoria a un esercito composto di soli volontari, una realtà presente da anni in molti altri Stati. Il servizio militare, per quanto inutile e diseducativo, costituiva però l’unico momento d’incontro generalizzato tra i due mondi. Un’esperienza unica nel suo genere, che univa ricchi e poveri, gente del sud e del nord, militanti di destra e di sinistra. Ora non esisterà più nemmeno questo momento di contatto e le conseguenze si faranno sentire.

Non è possibile mantenere società civile e mondo militare lontani pur riconoscendo l’importanza di entrambe le realtà.

Un esempio di questa lontananza è rappresentato dalle decisioni delle istituzioni universitarie cui è destinato questo lavoro di ricerca e aiuta a comprendere la gravità della situazione.

Le facoltà di Scienze Politiche di Pisa e Firenze hanno sottoscritto, pochi anni addietro, una convenzione con l’Accademia Navale di Livorno per consentire ai cadetti di raggiungere il diploma di laurea. La convenzione rappresentava un’importante occasione di incontro tra gli studenti e i cadetti, ma è stata vanificata dal contenuto degli accordi, perché non sono i cadetti a recarsi nelle aule dell’università, bensì i docenti universitari che si spostano in quelle dell’accademia.

Le facoltà di Scienze Politiche hanno l’ambizione di formare diverse figure professionali, tra cui i componenti della futura classe dirigente e le accademie militari preparano i giovani che sperano in un futuro da alti ufficiali. Cioè esattamente i soggetti che domani si troveranno seduti a un tavolo simile a quello di Ottawa.

La prospettiva può sembrare molto aleatoria, ma basta guardare al recente passato e al presente della vita istituzionale italiana per trovare l’esempio pratico di quanto è stato detto. Infatti gli ultimi due Presidenti del Consiglio e l’attuale Presidente della Repubblica, Comandante Supremo delle Forze Armate, provengono dai banchi dell’università di Pisa e proprio l’on. D’Alema e il Presidente Ciampi hanno gestito uno dei più importanti coinvolgimenti bellici italiani del secondo dopoguerra: il conflitto in Jugoslavia.

Questa situazione apre un ulteriore interrogativo nell’interazione tra soggetti che perseguono un unico obbiettivo. Quali difficoltà deve affrontare chi impartisce un comando non conoscendo l’interlocutore destinato ad eseguirlo, né le condizioni del terreno su cui questi si ritroverà ad operare?

La domanda non riguarda solo il settore militare, ma è di fondamentale importanza anche per le operazioni umanitarie. Spesso queste strutture dividono completamente il ruolo decisionale da quello operativo, con rappresentanti seduti in un ufficio di un Paese occidentale che danno disposizioni ai volontari impegnati a spalare fango e macerie in un Paese del Terzo Mondo senza una precisa cognizione delle condizioni di lavoro sul terreno.

Un ultimo caso di difficoltà a comunicare è rappresentato dalle condizioni di vita radicalmente diverse di chi abita il nord e il sud del mondo.

I Paesi occidentali, protagonisti dei due conflitti mondiali, conoscono un periodo di pace che si protrae dal 1945. Le guerre dell’ultima metà del ‘900 hanno coinvolto in molti casi i militari americani e quelli delle altre potenze della NATO, ma il territorio di questi Paesi (come quello del Giappone o dell’Oceania) non è più stato teatro di scontri cruenti. Inoltre la tecnologia occidentale ha consentito di combattere guerre a distanza e non corpo a corpo sul campo di battaglia. Per contro esistono Paesi che sono in guerra da decenni e questi stessi Paesi sono spesso l’obbiettivo degli interventi umanitari di matrice occidentale.

Questo scenario porta a risultati cui bisogna dare una risposta in tempi brevissimi. Da una parte ci sono intere popolazioni che hanno la fortuna di non conoscere la guerra, dall’altra ci sono popolazioni che non dispongono del concetto di pace e  dove la situazione di conflitto rappresenta la normalità per le giovani generazioni.

Anche questi due mondi hanno la necessità di entrare in contatto e di parlarsi, la distanza tra loro è già abissale e non si può aspettare oltre per cercare di colmarla.

 


 

Le riflessioni ora esposte sono essenziali per unire un mondo profondamente diviso e potrebbero contribuire a spostare l’attitudine a reagire di fronte alle tragedie verso una cultura della prevenzione e della comprensione reciproca. Per lavorare in questa direzione è necessario un approccio interdisciplinare e il coinvolgimento di tutte le realtà sociali.

La lotta per l’eliminazione delle mine non ha beneficiato dei risultati che questo disegno si auspica, ma i loro effetti si faranno sentire ancora per lungo tempo e la tragedia che esse rappresentano può comunque servire a evitare il ripetersi degli errori commessi.

8 . 2 . 2 – I canali dell’apprendimento

La circolazione delle informazioni, delle conoscenze e delle persone è prerequisito fondamentale alla costruzione di società pacifiche su basi solide.

I canali dell’apprendimento sono molteplici, da ogni piccolo gesto giornaliero è possibile imparare qualcosa, ma l’iniziativa del singolo dovrebbe essere supportata da una struttura sociale che ne faciliti l’accesso.

Lo strumento principe è costituito dalla formazione scolastica e dallo studio di testi, ma l’accesso alla scuola non è un diritto universalmente garantito e deve essere inserito nelle politiche di cooperazione internazionale in cima alla lista delle priorità. Questo spesso non avviene perché è più importante sviluppare progetti industriali e finanziari che producono ricchezza e, mantenendo basso il livello di preparazione delle popolazioni povere del pianeta, è possibile tenerle sotto controllo e sfruttarle senza bisogno di ricorrere a metodi più violenti e vistosi come la schiavitù o il colonialismo.

Il diritto all’istruzione è troppo spesso un lusso anche nei Paesi sviluppati, non esiste sostegno economico per chi vuole continuare il proprio corso di studi pur non disponendo dei necessari mezzi finanziari ed esistono troppi sistemi scolastici che consentono alle istituzioni di arrogarsi il diritto di decidere a quali settori dell’istruzione può avere accesso il singolo.

L’intero mondo della cultura può collaborare ad avvicinare il proprio pubblico a temi di portata mondiale come quello delle mine. La scrittura, il teatro e il cinema hanno la capacità di toccare corde nascoste della sensibilità individuale e lasciano addosso segni spesso più profondi di un intero corso di studi.

In teoria anche il mezzo televisivo potrebbe contribuire nella direzione di una cultura di pace, ma per questo serve la possibilità di apprendere sviluppando una propria capacità critica, mentre la televisione è oggi una gigantesca pattumiera, studiata appositamente per uniformare verso il basso il livello culturale della società.

In fondo alla lista poniamo infine il più diretto dei canali di apprendimento: il viaggio. Non esiste niente di più importante che l’incontro fisico tra gli esseri umani per prevenire le incomprensioni e le dispute.

È necessario toccare con mano le abitudini di vita di chi ha scelto un percorso diverso dal nostro, bisogna avere l’umiltà di osservare e liberarsi della presunzione di giudicare le culture straniere con il parametro di quella di provenienza.

Scrive Pino Cacucci :

“Per raccontare il mondo non bisogna spiegarlo e forse neanche cercare di capirlo. Bisogna lasciarsi trasportare dalla passione per genti lontane e terre tutte da scoprire. Sono nati così i libri di viaggio più belli: scritti non da esploratori né tantomeno da turisti, ma da “viandanti” come Bruce Chatwin, Marc Cooper, Luis Sepúlveda. Capaci di fermarsi lungo il cammino per “ascoltare” l’anima del mondo”[6].

  


 

[1] In molte occasioni di incontro con le classi delle scuole medie superiori si sono avuti casi di docenti che affidavano la scolaresca ai relatori e coglievano l’occasione per concedersi un’ora di libertà.

[2] Vedi MAECI CANADA – Passage – Inverno 1998 n. 8 pp.14-15 – Primavera-Estate 1999 n.9 pp.14-15 – Autunno-Inverno 2000 n.12 pp.26-29 – cit..

[3] Dispiace essere ripetitivi, ma bisogna nuovamente segnalare un’iniziativa proveniente dal Canada. Un concorso per tre borse di studio: PRAM (Programme de recherche sur l’action contre les mines) – l’iniziativa è sostenuta da International and Security Studies University of York – MAECI Canada – MAC – www.mines.gc.ca/marp/text_f.html .  

[4] Cfr. paragrafo 3.2.6.

[5] Per tutti questi dati vedi SIPRI “The 100 largest arms-producing companies in OECD and developing countries in 1997”.

[6] Da un articolo di “Effe” – Estate 1996 – n.3.